Diritto dei Mercati Finanziari


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 1503 - pubb. 14/02/2009

Omessa informazione e lucro cessante

Tribunale Verona, 23 Dicembre 2008. Est. Tommasi Di Vignano.


Intermediazione finanziaria – Violazione dei doveri informativi – Nesso di causalità tra condotta e danno – Raffronto tra il profilo di rischio dell’investitore l’investimento effettuato – Rilevanza – Prova – Sussistenza.

Intermediazione finanziaria – Violazione dei doveri informativi – Danno da mancato guadagno – Liquidazione equitativa – Criteri.



Può ritenersi provato il nesso di causalità tra difetto di informazione da parte dell’intermediario e danno patito dall’investitore in dipendenza del mancato rimborso del capitale investito in obbligazioni Cirio qualora, in ragione del profilo di rischio emergente dalla precedenti operazioni, si possa ragionevolmente escludere che l’investitore, se fosse stato adeguatamente informato, avrebbe effettuato un investimento inadeguato. (Franco Benassi) (riproduzione riservata)

Il danno da mancato guadagno causato dalla violazione dei doveri informativi, ove possa ritenersi provato che l’investitore avrebbe destinato il capitale a più sicuri investimenti in titoli di stato, può essere liquidato, tenuto conto dell’intrinseca aleatorietà degli investimenti in strumenti finanziari, in via equitativa nella misura del 3,5 per cento annuo dal compimento delle operazioni alla pronuncia della sentenza. (Franco Benassi) (riproduzione riservata)


 


Il Tribunale

omissis

MOTIVI DELLA DECISIONE

Al centro della presente indagine va posto l’accertamento relativo all’assolvimento da parte della banca convenuta degli obblighi di diligenza e di informazione che la normativa sull’intermediazione finanziaria e in particolare le norme del T.U.F. 58/98 e della Del. Consob 11522/98 pongono a carico dell’intermediario finanziario a tutela dell’investitore.

In ordine agli effetti della violazione dei doveri di diligenza ed informazione gravanti sulla banca, va preliminarmente evidenziato che la Corte di Cassazione a Sezioni Unite è intervenuta nel dicembre 2007 sul contrasto giurisprudenziale insorto in detta materia tra i giudici di merito ed ha affermato che la violazione dei doveri d'informazione del cliente e di corretta esecuzione delle operazioni che la legge pone a carico dei soggetti autorizzati alla prestazione dei servizi d'investimento finanziario può dar luogo a responsabilità precontrattuale, con conseguente obbligo di risarcimento dei danni, ove tali violazioni avvengano nella fase precedente o coincidente con la stipulazione del contratto d'intermediazione destinato a regolare i successivi rapporti tra le parti; può invece dar luogo a responsabilità contrattuale, ed eventualmente condurre alla risoluzione del predetto contratto, ove si tratti di violazioni riguardanti le operazioni d'investimento o disinvestimento compiute in esecuzione del contratto d'intermediazione finanziaria in questione. In nessun caso, in difetto di previsione normativa in tal senso, la violazione dei suaccennati doveri di comportamento può però determinare la nullità del contratto d'intermediazione, o dei singoli atti negoziali conseguenti, a norma dell'art. 1418, comma 1, c.c. (Cass. SS.UU. 19/12/07, n. 26725).

Questo Collegio, in ossequio alla funzione nomofilattica della Cassazione, ritiene allo stato (in attesa di soluzioni dogmatiche più soddisfacenti) di adeguarsi all’orientamento sopra riportato, con la duplice conseguenza che, da una parte, deve escludersi che la violazione da parte della banca dei doveri di diligenza ed informazione posti a tutela dell’investitore dalla disciplina dell’intermediazione finanziaria (T.U.F. e regolamenti Consob attuativi) determini nullità del contratto d’investimento e dei successivi ordini di acquisto e, dall’altra, che detta violazione va valutata sotto il diverso profilo dell’accertamento della responsabilità contrattuale dell’intermediario nei confronti dell’investitore, avente diritto al risarcimento del danno patito a seguito del comportamento negligente dell’intermediario medesimo.

Quanto osservato è sufficiente a respingere per infondatezza la domanda di nullità dell’acquisto dei titoli per violazione di norme imperative articolata in via principale da parte attrice.

Va, invece, valutata la fondatezza della domanda formulata in via subordinata da parte attrice e diretta, sul presupposto della violazione da parte della banca dei medesimi obblighi di diligenza e di informazione soprarichiamati, alla condanna della banca stessa al risarcimento del danno patito dagli investitori.

Per la distribuzione tra le parti dell’onere probatorio, soccorre l’art. 23 del T.U.F. 58/98, il quale, al comma 6, prescrive che nei giudizi di risarcimento dei danni cagionati al cliente dallo svolgimento dei servizi di investimento e di quelli accessori, grava sui soggetti abilitati l’onere della prova di aver agito con la specifica diligenza richiesta.

Nel caso dell’intermediario finanziario, la diligenza richiesta è quella qualificata di cui all’art. 1176, comma 2, c.p.c., che presiede all’adempimento delle obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale.

Nel caso di specie, la banca convenuta non ha articolato alcuna prova orale diretta alla dimostrazione dell’assolvimento degli obblighi di diligenza e di informazione posti a suo carico dalla disciplina dell’intermediazione finanziaria.

Essa ha, infatti, dedotto che prova sufficiente della tesi dell’assolvimento dei detti obblighi nei confronti degli attori fosse rappresentata dalla documentazione ritualmente prodotta in atti, costituita dal contratto scritto di deposito titoli a custodia n. 08129/13509 del 21/10/96 (soggetto all’abrogato D.Lgs. 415/96); dalla dichiarazione sottoscritta dagli attori di rifiuto di fornire alla banca le informazioni richieste relative alla situazione finanziaria, agli obiettivi di investimento e alla propensione al rischio; dalla segnalazione scritta nell’ordine di acquisto che l’operazione era inadeguata e che sarebbe stata eseguita fuori dai mercati regolamentati.

Ciò premesso, va osservato che il complesso degli obblighi informativi previsti dagli artt. 21 del T.U.F. 58/98 e 26 e 28 della Del. Consob 11522/98 grava l’intermediario a partire dalla fase antecedente la prestazione dei servizi d’investimento, che si concreta nella consegna del documento sui rischi generali degli investimenti in strumenti finanziari, sino a tutto lo svolgimento del rapporto contrattuale, comprensivo della firma del contratto quadro e dei singoli ordini di acquisto, ed impone all’intermediario medesimo di fornire all’investitore informazioni complete ed adeguate sulla natura e sui rischi di ogni specifica operazione di investimento.

La Del. Consob 11522/98 specifica ulteriormente gli obblighi dell’intermediario di corretta e diligente informazione del cliente investitore circa gli strumenti finanziari oggetto dell’operazione.

L’art. 28, 1 comma, del citato regolamento attuativo impone all’intermediario, prima della prestazione dei servizi d’investimento, di consegnare all’investitore il documento sui rischi generali degli investimenti in strumenti finanziari e di chiedergli notizie circa la sua esperienza in materia di investimenti in strumenti finanziari, la sua situazione finanziaria, i suoi obiettivi di investimento e la sua propensione al rischio, precisando che l’eventuale rifiuto di fornire le informazioni deve risultare da apposita dichiarazione sottoscritta dall’investitore.

Al comma 2, lo stesso art. 28 prescrive che gli intermediari autorizzati non possono effettuare o consigliare operazioni se non dopo aver fornito all’investitore informazioni adeguate sulla natura, sui rischi e sull’indicazione della specifica operazione o del servizio, la cui conoscenza sia necessaria per effettuare consapevoli scelte di investimento o disinvestimento.

In proposito, la deduzione di parte attrice di non avere ricevuto dalla banca il documento sui rischi generali degli investimenti in strumenti finanziari non è stata contestata da parte convenuta, sicché può ritenersi accertato che, nel caso di specie, la banca ha omesso di fornire agli investitori anche il primo, più generico, bagaglio informativo, finalizzato all’ottenimento di informazioni di base circa gli investimenti in strumenti finanziari e circa i rischi generali connessi agli investimenti stessi.

Deve escludersi che tale omissione si giustifichi nel caso in esame con il rifiuto del cliente a fornire le informazioni sopra indicate.

Se infatti, in termini puramente dogmatici, può sostenersi che, in attuazione dell’obbligo di reciproca cooperazione gravante sulle parti contrattuali nell’esecuzione delle rispettive obbligazioni (art. 1337 e 1227 cod.civ.), il rifiuto dell’investitore di fornire informazioni circa la propria situazione patrimoniale, i propri obiettivi di investimento e la propria propensione al rischio può determinare la liberazione della banca dagli obblighi informativi posti a tutela dell’investitore medesimo, va anche sottolineato che detto rifiuto deve essere sempre interpretato dalla banca in ossequio al canone di buona fede operante in generale sulle parti contrattuali ex artt. 1337 e 1375 cod.civ. (e, in particolare, sulla parte in favore della quale si manifesta la presumibile asimmetria informativa in materia di intermediazione finanziaria, quale è la banca), nel senso che la banca stessa è tenuta a valutare il significato del rifiuto del cliente di fornire le informazioni alla luce di tutti gli elementi che comunque sono, o potrebbero essere ex art. 1176, 2 comma, c.p.c., nella sua disponibilità per tracciare il corretto profilo dell’investitore e determinare conseguentemente il livello adeguato d’informazioni da fornire all’investitore medesimo onde consentirgli una scelta di investimento libera e consapevole.

Nel caso di specie, può ritenersi la banca, al di là del rifiuto formale dei clienti di fornire informazioni, fosse nelle condizioni di acquisire aliunde, secondo buona fede, elementi idonei a tracciare un corretto profilo di essi come investitori, trattandosi di persone già conosciute dalla banca, in quanto già clienti della stessa, con bassa scolarità e al loro primo investimento in strumenti finanziari.

Ne deriva che, nel caso in esame, il rifiuto di fornire informazioni formalizzato dagli attori con la sottoscrizione della dichiarazione predisposta dalla banca nel contratto di deposito titoli a custodia (doc. 1 di parte convenuta) non poteva consentire l’esonero dell’intermediario dall’obbligo di fornire all’investitore una corretta informazione e di valutare l’adeguatezza del prodotto finanziario oggetto di negoziazione, dovendo al contrario ritenersi che la banca fosse tenuta, secondo buona fede, a modulare i propri comportamenti su livelli di tutela elevati, dovendo ricavare dal rifiuto - in difetto di indici di segno opposto - una propensione al rischio minima o ridotta, una scarsa conoscenza degli strumenti finanziari e, conseguentemente, obiettivi di investimento orientati alla conservazione del capitale piuttosto che alla massimizzazione dei rendimenti (Trib. Milano, 20/3/06; Trib. Monza 16/12/04 e Trib. Mantova 1/12/04, sugli effetti del rifiuto di fornire informazioni a prescindere dal richiamo alla buona fede).

Gli obblighi di diligenza e di informazione possono quindi ritenersi effettivamente adempiuti da parte della banca quando la stessa abbia la percezione, secondo buona fede - per avere cioè diligentemente posto in essere i comportamenti previsti dalla legge modulandoli sul caso concreto - che l’investitore ha compreso le caratteristiche dell’operazione effettuata, sotto il profilo del suo funzionamento, dei costi e rischi patrimoniali ed anche in riferimento alla sua adeguatezza, dovendo escludersi in termini di inesigibilità che dalla banca possa pretendersi la prova certa della piena comprensione da parte del cliente dell’operazione, sotto i profili sopra indicati.

In attuazione di tali principi e, in particolare, delle prescrizioni di cui al citato art. 28, 2 comma, Del. Consob 11522/98, la banca sarebbe stata tenuta a fornire agli investitori informazioni ben più chiare e complete sull’investimento e, in particolare: a) sulle caratteristiche dell’investimento in titoli obbligazionari, quali sono i titoli Cirio; b) sulla provenienza dell’emissione da una società di diritto lussemburghese (Cirio Holding Luxemburg S.A.), distinta dalla Cirio italiana operante nel settore agroalimentare e soggetta a una legislazione ben più indulgente di quella italiana in materia di regolamentazione delle emissioni obbligazionarie; c) sul rischio economico dell’operazione, vale a dire sul rischio di perdita integrale del capitale nell’ipotesi di dissesto del gruppo di appartenenza della società emittente.

Tale comportamento appare tanto più doveroso per la banca quanto più si consideri che la stessa era, o avrebbe potuto essere, in possesso degli strumenti conoscitivi necessari per acquisire la consapevolezza della pericolosità oggettiva dell’investimento in titoli Cirio, atteso che, pur essendo vero che il default del gruppo Cirio è divenuto di pubblico dominio solo nel novembre del 2002, l’offering circular predisposta dall’emittente nel febbraio 2001 e consegnata agli investitori istituzionali che ne abbiano fatto richiesta descriveva diffusamente l’operazione ed il contesto economico finanziario nel quale la stessa veniva realizzata, dando atto dell’imponente indebitamento del Gruppo e ponendo espressamente in dubbio la capacità di emittente e garante di rimborsare il prestito emesso.

Ai sensi dell’art. 26, lett. e), della Del. Consob. 11522/98, che impone all’intermediario di acquisire la conoscenza dei servizi di investimento e degli strumenti finanziari che promuove alla clientela, ed in considerazione della particolare misura di diligenza che può pretendersi dall’intermediario ex art. 1176, 2 comma, cod.civ., può configurarsi l’obbligo della banca di conoscere (quantomeno) il contenuto nel documento informativo ‘minimo’ del prestito - appunto l’offering circular - che preannuncia e accompagna ogni emissione obbligazionaria priva di prospetto informativo in quanto non soggetta alla disciplina protettiva della sollecitazione all’investimento di cui agli artt. 94 e ss. T.U.F. (quali sono le emissioni - tra cui le sette corporate Cirio - effettuate sull’euromercato).

Sotto il profilo dell’adeguatezza, l’art. 29, 1 comma, della Del. Consob 11522/98 impone all’intermediario di astenersi dall’effettuare con o per conto dell’investitore operazioni non adeguate per tipologia, oggetto, frequenza o dimensione, precisando, al comma 3, che l’intermediario, quando riceva dal cliente disposizioni relative ad una operazione non adeguata, deve informare il cliente stesso dell’inadeguatezza dell’operazione spiegandone le ragioni ed altresì che, qualora l’investitore intenda comunque dar corso all’operazione, la stessa deve essere eseguita solo sulla base di un ordine scritto (o registrato, in caso di ordini telefonici) in cui sia fatto esplicito riferimento alle avvertenze ricevute.

Il richiamo al canone di buona fede poc’anzi effettuato consente di escludere la fondatezza dell’eccezione della banca convenuta che assume quale indice sufficiente dell’assolvimento degli obblighi di informativa in ordine all’inadeguatezza dell’operazione il fatto che l’ordine di acquisto dei titoli, sottoscritto dall’investitore, rechi la dicitura ‘operazione non adeguata’: di per sé, infatti, detta indicazione, ove non accompagnata da idonea informativa circa il senso e le ragioni dell’inadeguatezza dello strumento finanziario e/o dell’investimento, non assicura in alcun modo la comprensione da parte dell’investitore del vero senso dell’avvertenza e cioè che l’operazione gli viene sostanzialmente sconsigliata dall’intermediario per le sue caratteristiche intrinseche (oggettive e/o dimensionali e/o di rischio, per esempio, per essere operazione a rischio di perdita del capitale) o in relazione al peculiare profilo dell’investitore stesso (per esempio, per avere quest’ultimo una scarsa propensione al rischio, dichiarata o ricavabile aliunde dalla banca, sempre secondo buona fede).

L’interpretazione secondo buona fede del complessivo contegno dei clienti nonché delle loro caratteristiche quali investitori avrebbe reso necessaria da parte della banca una più pregnante informativa dei clienti stessi anche sotto il profilo dell’inadeguatezza dell’operazione, atteso che l’obbligo dell’intermediario di acquisire le informazioni sulle caratteristiche dell’investitore di cui al citato art. 28 Delib. 11522/98 è posto dal legislatore anche in funzione della migliore valutazione da parte dello stesso intermediario della misura di adeguatezza dell’operazione in relazione alla peculiare tipologia dell’investitore, in attuazione della regola di diligenza del know your customer.

Non ha pregio la tesi difensiva della banca secondo la quale essa avrebbe desunto la propensione al rischio degli attori dalla pregressa operatività degli stessi (cfr. doc. 5 di parte convenuta), da una parte perchè le operazioni di investimento indicate dalla banca, e consistenti nella sottoscrizione di due fondi ‘Soluzione 5 ‘in gran parte obbligazionari e per il residuo azionari, risalgono al 2002, cioè ad epoca successiva all’acquisto dei titoli Cirio oggetto di causa - rimanendo pertanto irrilevanti ai fini che qui interessano - e, dall’altra, perché esse descrivono una operatività sostanzialmente priva di indici di una alta propensione al rischio. Va sottolineato, inoltre, che, oltre all’acquisto oggetto di causa in titoli Cirio e alla sottoscrizione dei due fondi predetti, non risulta che gli attori abbiano mai investito in altri strumenti finanziari, ciò che ulteriormente conferma il loro profilo di investitori, per così dire, occasionali.

Ne consegue che, nel caso di specie, deve ritenersi che la banca sia incorsa in violazione anche dell’art. 29 della Del. Consob 11522/98, per non avere compiutamente messo gli investitori nelle condizioni di valutare al meglio l’opportunità di procedere o non procedere all’investimento ‘non adeguato’.

Sfornita di prova concreta è invece rimasta la deduzione attorea relativa al preteso conflitto di interessi in cui sarebbe versata la banca nel promuovere un titolo asseritamente già presente nel proprio portafoglio, nell’effettuare cioè una operazione ‘in contropartita diretta’.

Sul punto, parte attrice non ha fornito, né offerto, la prova che i titoli erano già presenti nel portafoglio della banca al momento dell’acquisto oggetto di causa ovvero che gli stessi fossero inseriti nel portafoglio di soggetti collegati alla banca stessa ovvero che questa fosse stata designata lead manager dell’emissione o facesse parte del consorzio di collocamento dei titoli, ma ha al contrario dedotto che è la banca il soggetto tenuto a dimostrare che i titoli non erano nel proprio portafoglio né in quello di banche collegate al proprio gruppo di appartenenza né che sussistessero tra la banca stessa e la società emittente rapporti di finanziamento tali da determinare un conflitto di interesse col cliente per essere la banca non indifferente rispetto al buon esito del collocamento dei titoli.

L’assunto è infondato. In ossequio al principio generale di distribuzione tra le parti degli oneri probatori espresso dall’art. 2697 cod.civ., incombe sull’investitore l’onere di provare il fatto materiale produttivo del conflitto di interessi rilevante ai sensi dell’art. 27 della Del. Consob 11522. Solo una volta raggiunta la prova del fatto storico generatore del conflitto nei confronti del cliente, insorge l’obbligo della banca, ex art. 23, 6 comma, T.U.F., di provare di avere assolto gli obblighi di diligenza ed informazione che la legge pone a carico dell’intermediario nel caso in cui lo stesso versi in situazione di conflitto di interessi (cfr. art. 27 T.U.F., relativo all’obbligo di informare il cliente della sussistenza del conflitto di interesse dell’intermediario e di far risultare per iscritto dall’ordine di acquisto la relativa avvertenza all’investitore e la volontà di quest’ultimo di procedere ugualmente). Tale conclusione si giustifica sul rilievo che l’esecuzione da parte dell’intermediario di operazioni in situazione di conflitto di interesse con il cliente non integra di per sé una condotta vietata, vietato essendo soltanto operare in conflitto senza darne al cliente chiara e puntuale informativa, sicchè il fatto materiale generatore della situazione di conflitto di interesse resta estraneo all’onere probatorio ‘invertito’ previsto a carico dell’intermediario dall’art. 23, comma 6, T.U.F. per gravare, secondo le regole ordinarie, sulla parte (l’investitore) che ne lamenta l’esistenza.

Rispetto ai citati addebiti di aver operato in conflitto di interesse, la richiesta attorea di CTU appare quindi sostanzialmente esplorativa e, come tale, inammissibile, e per tale ragione il Collegio l’ha respinta.

Consegue a quanto detto che la deduzione degli attori in ordine al conflitto di interessi della banca ex art. 27 T.U.F. va respinta.

Giova comunque sottolineare, sia pure ad abundantiam, che la circostanza che la banca sia già in possesso del titolo promosso nei confronti del cliente, di per sé (cioè in assenza di ulteriori indici significativi dell’esistenza di un interesse della banca in conflitto con quello del cliente) non integra necessariamente l’ipotesi di ‘conflitto di interessi’ descritta dall’art. 27 T.U.F., poiché proprio alla stregua del T.U.F., l’attività di negoziazione in conto proprio di cui all’art. 1, comma 5, lett. a), presuppone come fatto ‘normale’ la titolarità del titolo o del valore mobiliare in capo all’intermediario, per averlo acquistato in precedenza sul mercato finanziario (art. 32, comma 3, Del Consob 11522/98), trattandosi di attività nella quale l’intermediario, al di fuori di qualsiasi interesse - diretto o mediato - al collocamento del titolo, agendo in esecuzione dell’ordine del cliente e nell’interesse del cliente stesso, lucra sul differenziale tra prezzo di acquisto del titolo sul mercato e prezzo di rivendita del titolo all’investitore (per la differenza tra collocamento e negoziazione-ricezione di ordini, cfr. Trib. Parma, 7/3/07).

Consegue a quanto osservato sinora che la domanda risarcitoria formulata in via subordinata da parte attrice va ritenuta fondata per avere la banca contravvenuto, nei limiti sopra specificati, agli obblighi di diligenza ed informazione posti a suo carico dalla disciplina sulla intermediazione finanziaria di cui al T.U.F. e alla Del. Consob d’attuazione.

In applicazione dei sopra ricordati principi espressi dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite (cfr. Cass. SS.UU. 19/12/07, n. 26725), l’accertamento della violazione dei detti obblighi, incidendo sulle modalità di esecuzione dell’operazione di investimento, determina l’insorgenza della responsabilità contrattuale della banca convenuta, che va quindi condannata al risarcimento del danno patito dagli attori a seguito dell’acquisto dei titoli oggetto di causa.

Deve ritenersi certamente sussistente nel caso di specie anche il nesso eziologico tra il difetto di informazione da parte della banca e il danno patito dagli attori per il mancato rimborso del capitale investito, potendo escludersi in ragione del profilo degli investitori  C.-D., sopra illustrato, che gli stessi, ove adeguatamente informati dalla banca del rischio della perdita integrale del capitale, si sarebbero egualmente determinati all’investimento ‘inadeguato’.

Con riguardo alla determinazione del danno emergente, deve ritenersi che nel caso di specie esso si identifichi con il capitale perduto nell’investimento infruttuoso, pari ad € 13.188,07, importo dal quale vanno dedotte: 1) le somme relative alle eventuali cedole incassate medio tempore dagli attori; 2) il valore alla data dell’introduzione del presente giudizio dei titoli oggetto di causa, che, in assenza di domanda degli attori di risoluzione dell’acquisto e di retrocessione dei bond, rimangono nella disponibilità degli attori.

Quanto alle cedole, nessuna deduzione è pervenuta dalle parti - nemmeno dalla banca in via di eccezione - in ordine ad eventuali somme incassate dagli attori in corso di investimento.

Quanto al valore residuo dei titoli, va osservato che la deduzione di parte attrice in ordine al valore ‘zero’ dei titoli al primo trimestre del 2005, documentata dagli attori con la nota informativa predisposta dalla stessa convenuta di cui al doc. 7 attoreo, è rimasta priva di contestazione da parte della banca, sicchè può dirsi accertato il controvalore ‘zero’ dei titoli Cirio ai fini della determinazione del danno netto.

Va quindi ritenuto che il danno emergente patito dagli attori coincida integralmente con la perdita del capitale investito.

Quanto al danno relativo al mancato guadagno, fatto oggetto degli attori della domanda risarcitoria articolata sub c) delle conclusioni di cui in atto di citazione, va osservato che la duplice prospettazione attorea secondo la quale gli attori, al momento dell’acquisto, avevano manifestato la volontà di acquisire titoli sicuri ed il funzionario della banca aveva loro consigliato i bond Cirio prospettandoli come titoli aventi le stesse caratteristiche di BOT e CCT, può ritenersi accertata ex art. 232 c.p.c..

Invero, in corso di istruttoria non si è proceduto all’interrogatorio formale richiesto da parte attrice a carico della banca e ritualmente ammesso dal Collegio per mancata comparizione all’udienza di fronte al giudice delegato ex art. 16, comma 4, D.Lgs 5/03 del legale rappresentante della banca stessa, il quale solo tardivamente, vale a dire alla successiva udienza collegiale, ha fatto pervenire comunicazione di impedimento a presenziare all’udienza fissata per l’assunzione del mezzo istruttorio, senza peraltro documentare l’impedimento stesso. Ritiene il Collegio che l’assenza del legale rappresentante della banca vada ritenuta ingiustificata, sicchè i fatti dedotti nell’interrogatorio possono ritenersi come ammessi, valutato ogni altro elemento istruttorio, ai sensi del sopracitato art. 232 c.p.c..

Può quindi ritenersi acquisita la prova che gli attori, ove adeguatamente informati dalla banca circa la natura rischiosa dell’investimento in titoli Cirio, non avrebbero proceduto al relativo acquisto ed avrebbero destinato il capitale al più sicuro investimento in titoli di Stato.

Spetta pertanto agli attori anche il risarcimento del danno rappresentato dal mancato rendimento che il capitale avrebbe avuto ove impiegato, sin dal 14/2/01, nell’acquisto di BOT o CCT pluriennali.

Tenuto conto dell’intrinseca aleatorietà degli investimenti finanziari, inidonei per definizione a garantire in via assoluta un determinato rendimento, ed in considerazione del rendimento medio dei titoli di Stato nel triennio 2000-2003, questo Collegio ritiene di liquidare il lucro cessante, in via equitativa, nella misura del 3,5% annuo dal 14/2/01 alla data di pubblicazione della presente sentenza (cfr. Trib. Milano 13/11/08).

Va respinta, invece, la domanda attorea di pubblicazione dell’estratto della presente sentenza su quotidiani nazionali (che, in assenza di specificazioni di parte attrice, si ritiene di riferire all’art. 120 c.p.c.), atteso che, nel caso di specie, il Collegio ritiene che il ristoro economico sia idoneo a riparare integralmente il danno patito dagli attori.

Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate, in dispositivo, come da notula attorea in atti.

P.Q.M.

Il Tribunale di Verona in composizione collegiale, definitivamente decidendo, ogni contraria istanza ed eccezione respinta, così provvede:

in accoglimento della domanda attorea, condanna la Banca S.p.A. al pagamento in favore di  C. P. e D.M. della somma complessiva di €13.188,07, oltre interessi al tasso del 3,5% annuo dal 14/2/01 sino alla data di pubblicazione della sentenza ed al tasso legale dal periodo successivo sino al saldo effettivo;

condanna la banca convenuta a rifondere agli attori le spese di lite, che si liquidano in complessivi € 2.978,70 di cui € 426,70 per spese, oltre rimborso forfettario ex art. 15 T.F., IVA come per legge e CPA.

Verona, 23/12/08


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