Civile


Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 25/10/2023 Scarica PDF

Note minime sul decreto del Ministro della Giustizia n. 110 del 7 agosto 2023 e sull'attuazione del principio di chiarezza e sinteticità degli atti del processo civile

Massimo Niro, ex Magistrato


Sommario: 1. La genesi e il contenuto del decreto ministeriale del 7 agosto 2023; 2. La novellazione dell’art. 121 c.p.c. e la formalizzazione del principio di chiarezza e sinteticità degli atti nel rito civile; 3. Il significato e le ricadute pratiche di questa modifica normativa.

 

1. La genesi e il contenuto del decreto ministeriale del 7 agosto 2023

Sulla Gazzetta Ufficiale dell’11 agosto 2023 è stato pubblicato il Decreto del Ministro della Giustizia 7 agosto 2023, n.110, recante “Regolamento per la definizione dei criteri di redazione, dei limiti e degli schemi informatici degli atti giudiziari con la strutturazione dei campi necessari per l’inserimento delle informazioni nei registri del processo, ai sensi dell’articolo 46 delle disposizioni per l’attuazione del codice di procedura civile”.

Si tratta del regolamento ministeriale volto a dare attuazione alla modifica dell’art. 121 c.p.c. operata dal d.lgs. 10 ottobre 2022, n.149 (c.d. riforma Cartabia del processo civile), con l’introduzione del principio di chiarezza e sinteticità degli atti del processo, e alla connessa modifica dell’art. 46 disp. att. c.p.c., secondo cui “Il Ministro della giustizia, sentiti il Consiglio superiore della magistratura e il Consiglio nazionale forense, definisce con decreto gli schemi informatici degli atti giudiziari con la strutturazione dei campi necessari per l’inserimento delle informazioni nei registri del processo “e stabilisce con il medesimo decreto “i limiti degli atti processuali, tenendo conto della tipologia, del valore, della complessità della controversia, del numero delle parti e della natura degli interessi coinvolti”(comma 4). Dunque, nella premessa del decreto in esame il Guardasigilli rileva “al fine di favorire la chiarezza e sinteticità degli atti processuali, la necessità di stabilire criteri di redazione e limiti dimensionali, il cui mancato rispetto non comporta inammissibilità o invalidità dell’atto giudiziario”: quest’ultimo inciso recepisce la statuizione del nuovo art. 46 disp. att. c.p.c., 5° comma (“Il mancato rispetto delle specifiche tecniche sulla forma e sullo schema informatico e dei criteri e limiti di redazione dell’atto non comporta invalidità, ma può essere valutato dal giudice ai fini della decisione sulle spese del processo”). Il decreto ministeriale de quo consta di 12 articoli, con i quali sono disciplinati i criteri di redazione degli atti processuali (art. 2), i limiti dimensionali degli stessi (art. 3), le esclusioni e le deroghe ai limiti dimensionali (artt. 4 e 5), le tecniche redazionali degli atti (art. 6), i criteri di redazione dei provvedimenti del giudice (art. 7), gli schemi informatici degli atti (art. 8), la formazione professionale dei magistrati e degli avvocati (art. 9), l’istituzione di un “osservatorio permanente” sulla funzionalità dei criteri di redazione e dei limiti dimensionali stabiliti dal decreto al rispetto del principio di chiarezza e sinteticità degli atti del processo (art. 10).

Merita segnalare, ad una prima lettura, che i limiti dimensionali stabiliti per gli atti processuali non solo valgono esclusivamente per le cause di valore inferiore a euro 500.000 (art. 1), ma sono altresì soggetti a deroghe “se la controversia presenta questioni di particolare complessità, anche in ragione della tipologia, del valore, del numero delle parti o della natura degli interessi coinvolti”, prevedendosi che “In tal caso, il difensore espone sinteticamente nell’atto le ragioni per le quali si è reso necessario il superamento dei limiti”(art. 5 comma 1).

Analogamente si dispone che “Le dimensioni degli atti e dei provvedimenti del giudice sono correlate alla complessità della controversia, anche in ragione della tipologia, del valore, del numero delle parti o della natura degli interessi coinvolti”(art. 7 comma 2): si noti che per i provvedimenti del giudice non valgono i limiti dimensionali stabiliti dall’art. 3, poiché il giudice nella redazione dei suoi provvedimenti è tenuto al rispetto solo dei criteri di cui agli artt. 2 e 6, “in quanto compatibili”(art. 7 comma 1).

Ancora, va sottolineata l’importanza che si attribuisce alle disposizioni del decreto in esame ai fini della formazione dei magistrati e degli avvocati, prevedendosi che di tali disposizioni “si tiene conto nella definizione delle linee programmatiche proposte annualmente dal Ministro della Giustizia alla Scuola superiore della magistratura…” (art. 9 comma 1) e che “Il Ministero della Giustizia, in collaborazione con la Scuola superiore dell’avvocatura, favorisce le iniziative formative sui criteri e le modalità di redazione degli atti giudiziari adottate nell’ambito della formazione obbligatoria dell’avvocatura”(art. 9 comma 2): un’attenzione particolare è poi riservata alle “iniziative formative comuni alla magistratura e all’avvocatura, anche con il coinvolgimento di linguisti”, iniziative che il Ministero della Giustizia sostiene esplicitamente (art. 9 comma 3). In stretto collegamento con la formazione si pone, infine, la istituzione di “un osservatorio permanente sulla funzionalità dei criteri redazionali e dei limiti dimensionali stabiliti dal presente decreto al rispetto del principio di chiarezza e sinteticità degli atti del processo”: l’osservatorio opera presso l’Ufficio legislativo del Ministero della Giustizia e tra i suoi componenti, nominati dal Ministro, sono inclusi esperti nella linguistica giudiziaria e avvocati designati dal Consiglio nazionale forense(art. 10, commi 1 e 2)[1].

 

2. La novellazione dell’art. 121 c.p.c. e la formalizzazione del principio di chiarezza e sinteticità degli atti nel rito civile

Il testo originario dell’art. 121 c.p.c. aveva come rubrica “Libertà di forme”e constava di un solo periodo, del seguente tenore: “Gli atti del processo, per i quali la legge non richiede forme determinate, possono essere compiuti nella forma più idonea al raggiungimento del loro scopo”. L’art. 3, comma 9, d.lgs. 149 / 2022 aggiungeva al periodo sopra riportato un altro periodo, che è il seguente: “Tutti gli atti del processo sono redatti in modo chiaro e sintetico”(lett. a); inoltre, aggiungeva alla rubrica originaria l’ulteriore locuzione “Chiarezza e sinteticità degli atti”(lett. b). Questa modifica normativa è stata suggerita dalla legge-delega di riforma del processo civile (l. 26 novembre 2021, n.206), che invitava il Governo a “prevedere che i provvedimenti del giudice e gli atti del processo per i quali la legge non richiede forme determinate possano essere compiuti nella forma più idonea al raggiungimento del loro scopo, nel rispetto dei principi di chiarezza e sinteticità, stabilendo che sia assicurata la strutturazione di campi necessari all’inserimento delle informazioni nei registri del processo, nel rispetto dei criteri e dei limiti stabiliti con decreto adottato dal Ministro della Giustizia, sentiti il Consiglio superiore della magistratura e il Consiglio nazionale forense”(art. 1 comma 17 lett. d) l. 206/2021). La ratio dell’innovazione in esame è stata ravvisata nell’intenzione volta “ad accelerare i tempi della giustizia, a facilitare lo studio dei fascicoli ad opera del giudice (e degli addetti all’Ufficio per il Processo che lo coadiuvano), a incentivare la collaborazione tra le parti, e tra le parti e l’organo giudicante[2]. Va precisato che il principio di chiarezza e sinteticità degli atti già valeva per il processo amministrativo (v. art. 3, comma 2, Codice del processo amministrativo, nonché art. 13-ter norme di attuazione): al riguardo, si sottolinea che già prima della riforma Cartabia del 2022 la Corte di Cassazione osservava che “il dovere di chiarezza e sinteticità espositiva degli atti processuali, specificamente previsto per il processo amministrativo dal D.Lgs. 2 luglio 2010, n.104, art. 3, comma 2, e consacrato anche nel protocollo d’intesa stipulato tra la Corte di cassazione ed il Consiglio Nazionale Forense il 17 dicembre 2015, esprime certamente un principio generale del diritto processuale, destinato ad operare anche nel processo civile, e la sua inosservanza espone il ricorrente al rischio di una declaratoria d’inammissibilità dell’impugnazione, la quale non è tuttavia ricollegabile automaticamente all’irragionevole estensione del ricorso, non sanzionata normativamente, ma può trovare giustificazione nella violazione delle prescrizioni di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, nn.3 e 4, ove il difetto di sintesi renda oscura l’esposizione dei fatti di causa e confuse le censure mosse al provvedimento gravato, in modo tale da pregiudicare l’intellegibilità delle questioni proposte” [3]. Comunque, con la riforma Cartabia di cui al d.lgs. 149 /2022 ha fatto formalmente ingresso nel codice di rito civile il principio di chiarezza e sinteticità degli atti del processo, che trova appunto la sua sede generale nel novellato art. 121 c.p.c.; va ricordato che tale modifica normativa, ai sensi dell’art. 35 comma 1 d.lgs. cit., ha effetto a decorrere dal 28 febbraio 2023 e si applica ai procedimenti instaurati successivamente a tale data.

   

3. Il significato e le ricadute pratiche di questa modifica normativa

Per individuare il significato e la portata pratica della nuova prescrizione occorre, innanzitutto, comprendere se i due concetti di ‘chiarezza’ e di ‘sinteticità’ riferiti agli atti processuali siano sinonimi o, invece, siano concetti distinti, anche se connessi. Secondo una prima prospettazione i due termini costituiscono un’endiadi, ossia un unico concetto espresso attraverso due sostantivi [4]; secondo però l’interpretazione prevalente e più persuasiva i due termini sono distinti e sottendono concetti diversi, per cui si è ritenuto che “sia più corretto tenere i due concetti distinti e che sia meglio parlare (non di principio, ma) di principi di chiarezza e di sinteticità, tra loro autonomi, seppur connessi[5]. Infatti, la chiarezza va intesa come intellegibilità e comprensibilità dell’atto, mentre la sinteticità può essere intesa come ‘non ridondanza’ dell’atto stesso: in questo senso si è sostenuto dal giudice amministrativo che “L’essenza della sinteticità, prescritta dal codice di rito, non risiede nel numero delle pagine o delle righe in ogni pagina, ma nella proporzione tra la molteplicità e la complessità delle questioni dibattute e l’ampiezza dell’atto che le veicola. La sinteticità è, cioè, un concetto di relazione, che esprime una corretta proporzione tra due grandezze, la mole, da un lato, delle questioni da esaminare e, dall’altro, la consistenza dell’atto - ricorso, memoria o, infine, sentenza - chiamato ad esaminarle”[6]. Tuttavia, vi è un altro possibile significato del concetto di sinteticità, che la aggancia alle ‘dimensioni ‘ del testo, per cui un atto che sfori determinati limiti è per ciò solo prolisso e, quindi, non sintetico. Va ritenuta preferibile la prima interpretazione, della sinteticità come non ridondanza, secondo la quale “essa diviene un canone relativo e intrinsecamente modulabile, capace di adattarsi alla complessità fattuale e giuridica che le parti, prima, e gli operatori del processo, poi, si trovano a fronteggiare, e al contempo inidoneo a comprimere indebitamente i diritti di azione e difesa delle parti, o gli obblighi motivazionali dei giudici”: mentre “se la sinteticità viene intesa come criterio dimensionale, essa rischia di tramutarsi in un canone assoluto e rigido, in grado di pregiudicare l’effettività della tutela giurisdizionale”[7]. Se si esamina, adesso, il contenuto dell’art. 46 disp. att. c.p.c. novellato, ci si avvede che essoattribuisce al Ministro della Giustizia il potere di stabilire con decreto “i limiti degli atti processuali, tenendo conto della tipologia, del valore, della complessità della controversia, del numero delle parti e della natura degli interessi coinvolti”(comma 4): non pare dubbio che i ‘ limiti ‘ di cui si parla siano limiti quantitativi e, dunque, sembra che sia stata recepita l’interpretazione della sinteticità come criterio dimensionale e quantitativo, interpretazione da non preferire per la ragioni appena illustrate. In effetti, con il D.M. n.110 / 2023, esaminato nel paragrafo 1, sono stabiliti espressamente i “limiti dimensionali” degli atti processuali, che valgono per gli atti delle parti (art. 3), anche se tali limiti possono essere superati in caso di particolare complessità della controversia, su richiesta del difensore onerato di esporre le ragioni del superamento dei limiti (art. 5). La sinteticità intesa in questo modo, come criterio dimensionale, rischia altresì di compromettere la chiarezza dell’atto, poiché “la prescrizione di restrizioni quantitative rischia di inficiare la chiarezza del testo, sacrificata alla sua modesta estensione”[8]. Appare così acquisito che chiarezza e sinteticità dell’atto non sono sinonimi, bensì concetti distinti pur se complementari: con il corollario che le conseguenze in caso di violazione dell’uno o dell’altro canone non sono necessariamente identiche. Infatti, se un atto processuale difetta di chiarezza esso può essere dichiarato nullo, qualora risulti assolutamente incerto il “petitum” o la “causa petendi”[9]. Viceversa, non è ipotizzabile l’invalidità dell’atto che difetti di sinteticità, posto che “La mancanza di sinteticità, invece, appare priva di una sanzione specifica”[10]. Nondimeno, appare possibile fare ricorso alla disposizione di cui all’art. 175, comma 1, c.p.c., secondo cui “Il giudice istruttore esercita tutti i poteri intesi al più sollecito e leale svolgimento del procedimento”, riconoscendo al giudice “il potere di invitare le parti a riformulare l’atto, qualora questo risulti eccessivamente prolisso o ridondante”: in caso di mancata riformulazione potrebbe trovare applicazione l’art. 116, comma 2, c.p.c., che consente al giudice di trarre argomenti di prova anche dal contegno delle parti nel processo, ma pure l’art. 4, comma 7, D.M. 55/2014, in base al quale costituisce elemento di valutazione negativa, in sede di liquidazione giudiziale del compenso del difensore, l’adozione di condotte abusive tali da ostacolare la definizione dei procedimenti in tempi ragionevoli [11]. Vi è poi da tenere nella dovuta considerazione il già menzionato art. 46 disp. att. c.p.c., come modificato dall’art. 4 comma 3 lett. b) d.lgs. 149 / 2022, giusta il quale “Il mancato rispetto delle specifiche tecniche sulla forma e sullo schema informatico e dei criteri e limiti di redazione dell’atto non comporta invalidità, ma può essere valutato dal giudice ai fini della decisione sulle spese del processo”(quinto comma). Dunque, sicuramente il mancato rispetto dei limiti dimensionali dell’atto, ovvero la mancanza di sinteticità, non può comportare di per sé l’invalidità dell’atto: tutt’al più il mancato rispetto del canone di sinteticità potrà essere valutato dal giudice ai fini della pronuncia sulle spese processuali. Quest’ultima statuizione ha la sua importanza e già si sono viste le prime applicazioni: il Giudice di Pace di Verona, con decreto 29 settembre 2023, ha accolto un ricorso per decreto ingiuntivo, ma ha deciso di compensare le spese legali in ragione della violazione dei criteri di forma e redazione degli atti giudiziari ex art. 46 disp. att. c.p.c. in riferimento agli artt. 6 e 8 D.M. n.110 del 7.8.2023 [12]. In conclusione, l’introduzione nel codice di rito civile del principio (rectius dei principi) di chiarezza e sinteticità degli atti del processo rappresenta una innovazione importante, finalizzata ad accelerare i tempi della giustizia e quindi ad assicurare la “ragionevole durata” del processo (art. 111 comma 2 Cost.), nonché ad incentivare la collaborazione tra le parti e tra le parti e il giudice. La sua attuazione è prevalentemente affidata alla sensibilità degli operatori del diritto, avvocati e giudici, ma richiede prima di tutto che i criteri di forma e redazione degli atti giudiziari, così come definiti con il D.M. n.110 / 2023, siano intesi ed interpretati non in maniera rigida e formalistica, bensì in modo elastico, avendo sempre presente l’obiettivo di un processo più spedito e più rapido grazie ad atti redatti in modo (finalmente) chiaro e sintetico.



[1] Cfr. su questi temi, con specifico riferimento alle tecniche di scrittura giuridica, K.K. Tiscione, Breviario di scrittura giuridica (traduz. di S. Milianta), Maggioli ed., 2023.

[2] Cfr. F. De Giorgis, Le disposizioni generali in materia di chiarezza e sinteticità degli atti processuali nella riforma Cartabia, in www.Judicium.it, 16 giugno 2023.

[3] Così Cass. civ. sez. I ord. 2.10.2019, n.24585.

[4] Cfr., tra le molte, Cass. civ. sez. II sentenza 20.10.2016, n.21297.

[5] F. De Giorgis, op. cit..

[6] Cons. Stato sez. III sentenza 12 giugno 2015, n. 2900.

[7] Così F. De Giorgis, op. cit..

[8] Ancora F. De Giorgis, op. cit..

[9] Cfr. Relazione della Corte di Cassazione n.110 del 1° dicembre 2022: “ La mancanza di chiarezza dell’atto può determinarne la nullità, qualora sia tale da rendere assolutamente incerto il petitum o la causa petendi. In tal caso, potrà trovare applicazione l’art. 164 c.p.c., con assegnazione di un termine perentorio per l’integrazione dell’atto di citazione “ (pag.14).

[10] Cfr. Relazione della Corte di Cassazione cit., pag.14.

[11] Cfr., ancora, Relazione della Corte di Cassazione cit., pagg.14-15.

[12] Cfr. M. Reale, Spese compensate per il mancato rispetto del D.M. n.110/2023, in www.Il Quotidiano Giuridico.it, 17 ottobre 2023, ove l’Autore sottopone a critica il provvedimento in commento, anzitutto per il fatto di essere riferito ad un procedimento monitorio, caratterizzato dall’assenza del contraddittorio.



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